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Questa intervista è inclusa nel numero 40 di Dusk |
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Peter Gabriel Generic UP interview
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Perché l’album si intitola “UP”? “UP” è stato concepito come titolo circa otto anni fa. Già a quel tempo avevo molto materiale, e la maggior parte di esso era di natura positiva. Mi venivano in mente i fiumi, e giocavo con il pensiero di una serie di Su per il Khyber, Su per il Gange, Su per il Mississippi, dove io avrei mandato il mio disco ad un gruppo in diversi Paesi, l’avrebbero interpretato a modo loro e quindi avremmo cercato di tirarne fuori qualcosa di buono da mettere insieme o da realizzare come singole entità. Dunque si trattava di una specie di “Pacchetto UP”, ma credo di aver menzionato la cosa a Michael Stipe, e loro (i R.E.M.) sono stati i primi ad uscire con un album intitolato “UP”. Anche se ora credo che Shania Twain stia per pubblicare un album intitolato “UP” e Ani Di Franco ne ha fatto uno chiamato “UP UP UP UP”. C’è stato un ripensamento sul fatto che il tempo di questo titolo si fosse ormai compiuto e quindi sul sito Internet abbiamo chiesto alla gente se a loro piaceva ancora; la risposta è stata favorevole, e quindi ho mantenuto “UP”. Inoltre nel disco c’è questa alternanza di alti e bassi, ed è una cosa che riprenderò in tour; la scorsa volta si trattava dell’opposizione femmina/maschio e urbano/rurale, stavolta l’attenzione è ruotata di 90 gradi e si focalizza di più sul cielo e sulla terra. Il titolo “UP” riflette di più l’atteggiamento del disco o il tuo personale? Up è una parola positiva, ma se riascolto la musica adesso mi accorgo che ci sono diverse canzoni piuttosto tristi, quindi non so se vada proprio bene, ma ci ho fatto un po’ di abitudine. Personalmente sto molto bene al momento, e credo che “UP” più dei due dischi precedenti lo testimoni, quindi ci potrebbe essere una relazione in questo senso, sebbene non penso che ci sia un vero e proprio collegamento con la musica stessa. Ho sempre trovato più difficile scrivere musica allegra che musica triste. Avevo la sensazione che nel trinomio “So, US, UP” ci fosse una specie di inno alla guarigione che potevo far saltare fuori, e quindi c’era una certa logica in tutto questo. Come mai ci è voluto così tanto per realizzare “UP”? Beh, in realtà volevo battere il record del tempo utile per realizzare un disco... Ci sono stati altri impegni che ti hanno tenuto occupato mentre registravi “UP”? Mi piace di più fare musica che fare il commesso viaggiatore, quindi credo di aver evitato le altre cose, almeno in parte, però sono uno che si fa tentare dalle deviazioni. “OVO” con il Dome è stata una di queste deviazioni, e poi c’è stata anche la colonna sonora “Long Walk Home”. Adesso voglio anche esaminare un po’ di materiale, perché penso che mentre stai facendo un disco ti scaturisce un sacco di materiale, e a meno che tu non abbia avuto abbastanza input, come puoi aspettarti che sia tutto interessante o avere cose nuove su cui riflettere o scrivere un commento? Credo che questo sia un processo lento per ciò che mi riguarda; se entro in studio con 130 idee di canzoni, roba incompleta su cui si sta lavorando, finisco col passare da una cosa all’altra e poi all’altra ancora. Non ero propriamente concentrato su un gruppo preciso di canzoni. Quando sai che un disco è finito? La gente mi chiede sempre quando l’album uscirà, ed io dico sempre settembre senza specificare di quale anno. Quindi credo che la cosa sia scivolata più avanti nel tempo di quanto intendessi, ma ora credo di avere per le mani molto buon materiale da pubblicare. Sono molto fortunato, non devo per forza fare un disco se non mi va. Quindi si tratta più di definire quando è davvero pronto, e quando io mi sento pronto per affrontare di nuovo il mondo. Da dove provengono le canzoni di “UP”? Provengono da ogni dove, e in ogni disco c’è sempre qualcosa che è stato lasciato indietro da quello prima – è il caso di “Sky Blue”, che proviene da un periodo precedente, e ciò significa che si parla di circa 10 anni fa. Quando scrivo vomito materiale a volontà, poi seleziono quello che mi interessa dal punto di vista melodico o ritmico, e cerco di svilupparlo. E’ come cercare di far crescere un frutto: quando ti sembra abbastanza grosso o maturo lo spremi e provi a ricavarne del buon succo. A quale stadio i testi entrano a far parte del processo creativo? Beh, alcune idee vengono fuori presto, e quindi ti aiutano ad affinare la musica, ma per ciò che riguarda il grosso dei testi, di solito mi devo allontanare. Per scrivere un testo ci posso mettere mezza giornata come dieci giorni, e mi piace andar via e stare in un bed and breakfast o andare in giro in macchina, e devo farlo da solo. Penso proprio che viaggiare mi aiuti molto nello scrivere i testi. Qual è il tuo regime lavorativo? Per la maggior parte dei giorni entro in studio circa a mezzogiorno e raramente esco prima di mezzanotte. Sai, a volte penso che questa sia una vita piuttosto triste, e vorrei darci un taglio e avere una vita notturna più civile. Io ho una tecnica di composizione piuttosto confusionaria, dove tu getti tutto il materiale che ti viene contro il muro e poi tenti di sistemarlo sul pavimento, formando una spirale e cercando di trovare il centro. Mi ricordo di aver parlato di questo a George Martin come una specie di sistema per comporre, ed è rimasto atterrito dalla quantità di materiale che va scartato, poiché lui riusciva a concepire il lavoro solo come l’aver in testa un traguardo preciso da raggiungere senza deviazioni, sapendo esattamente come arrivarci. Ho provato a lavorare in questo modo, ma preferisco la mia maniera. In che modo la tecnologia ha cambiato il procedimento di fare musica? Credo che tutte le tecnologie associate al computer abbiano modificato il modo di scrivere – voglio dire, la facilità con cui puoi cambiare le cose e sperimentare idee nuove. Quando io ho cominciato, la musica era generalmente ciò che potevi conquistare, che potevi generare tu stesso, mentre adesso si tratta più di vedere cosa riesci a immaginare. Sembra sempre che noi stiamo cercando di spingere la tecnologia un passo più avanti di quanto non sia pronta, e quindi si trascorre molto tempo seduti ad aspettare che i computer siano assettati, ma le possibilità sono fantastiche. Penso che sia proprio questo il risultato della tecnologia, lo spostamento dalla tecnica “fisica” verso le idee. Ora non hai più solamente i musicisti che ti capita di conoscere o che ti puoi permettere di pagare, ma c’è un’enorme quantità di suoni a tua disposizione. Questo rende molto più critico prendere delle decisioni, e credo che contribuisca a rallentarmi. Dev’essere bellissimo avere i Real World Studios come base… Per me, avere uno studio è un lusso incredibile per due motivi: il primo è che mi permette di esplorare idee nuove come mi pare senza preoccuparmi troppo dei soldi, ma ciò che è più importante, sotto certi aspetti, è che un sacco di musica di tutti i tipi viene creata qui. Mi nutre il fatto di ascoltare cose, parlare alla gente, e se sento qualche musicista che mi fa pensare “Oh, è grande – questo sarebbe fantastico su disco”, lo posso rapire tranquillamente. Credo che l’avere lo studio qui mi sia servito tantissimo come artista, mi ha mantenuto nell’ambiente dei musicisti e della musica. In quali altri posti hai lavorato ad “UP”? Abbiamo cominciato quando avevo una casa in Senegal; siamo andati laggiù per scrivere un po’ e lavorare con alcuni dei ragazzi di Youssou, con i quali avevo già lavorato molte volte, sono fantastici. A quel punto non avevo ancora sviluppato molti spunti per le canzoni, e quindi era stata una cosa un po’ prematura, ma è stato interessante, poiché in seguito siamo andati in montagna in Francia e abbiamo imparato ad andare in snowboard. E’ stato interessante paragonare l’ambiente torrido con quello gelido; la mia casa non aveva l’aria condizionata o qualcosa di simile, e quindi a volte mi sedevo con un asciugamano in testa pieno di cubetti di ghiaccio, con l’acqua che colava da tutte le parti. Faceva veramente caldo, e in Africa ci vuole il quintuplo del tempo per fare le cose, dunque potete immaginare che se questo tipo di processo è già lento di per sé, là era ancora più lento, sebbene i musicisti e tutti gli altri fossero fantastici. Poi in Francia è stato stupendo. Al mattino lavoravamo, al pomeriggio uscivamo sulla neve e alla sera lavoravamo di nuovo, ed è stato il periodo più prolifico e creativo per me, anche se suona un po’ da vita da carcere. Ho scoperto che quando sto sulla neve, non riesco a pensare a niente altro che restare in piedi e sopravvivere, quindi è molto rilassante. Quale impatto hanno avuto le collaborazioni sull’album? Credo che portino aria fresca nella musica, e la conduca in direzioni che tu non avresti mai preso di tua iniziativa. Penso che esistano dei grossi vantaggi nell’essere in una band e anche nel non essere in una band – cioè essere un solista – ed io penso di avere il meglio di entrambe le cose. Faccio delle band sessions in cui invito la gente a suonare insieme, persone che si conoscono e che hanno confidenza fra di loro. Allo stesso tempo però cerco di coinvolgere altri, e ci vuole un attimo per assettare le cose e imbarcarsi in nuove avventure su ogni canzone. La chiave della collaborazione sta nell’ascoltare e lasciare un po’ di spazio alle persone per permettere loro di fare ciò che sanno fare bene. Sono così fortunato nell’avere la Real World Records e il WOMAD, e nell’aver conosciuto tanti musicisti straordinari durante tutti questi anni. Quindi questo è il modo di lavorare che preferisco – cercare di ottenere il meglio da entrambi i lati della medaglia. Ho sempre voluto avere la mia torta e mangiarmela. E’ un album personale? Credo che alcuni spunti siano personali, mentre altri sono meno specifici, sono più osservazioni sulla vita in genere. Direi che è meno focalizzato sulle relazioni interpersonali, ma nonostante ciò è un album abbastanza intimo. Che importanza ricoprono i collaboratori cosiddetti storici come David Rhodes? Lui ha delle idee molto chiare su cosa va bene e cosa no. Non sono sempre d’accordo con tutti loro, ma è molto utile avere accanto qualcuno che sia il più limpido possibile. Anche Meabh, che ora è mia moglie, è sempre stata molto critica; ha lavorato duramente a questo progetto, e abbiamo coinvolto diverse persone per raccogliere idee. Infatti, il disco è andato per le lunghe, e noi siamo usciti insieme per sette anni, ma prima di questo lei lavorava già qui. Io ho chiesto al mio staff di selezionare le buone idee dal centinaio che avevo, e alcuni sono stati così gentili da salvarne una cinquantina, ma lei le ha drasticamente ridotte a 14 in un colpo solo. E’ utile per me avere critiche severe prima che il disco affronti il mondo. Com’è stato lavorare con Peter Green? Considero Peter Green uno dei musicisti chiave del panorama britannico della mia adolescenza, ha un talento enorme. E’ chiaramente uscito un po’ dai binari, ma penso che se uno ha le sue capacità, molto spesso riesce a resuscitare in un modo o nell’altro. Ero propenso a pensare che avremmo potuto persuaderlo ad unirsi a noi e suonare qualcosa per il disco, e, infatti, ha fatto una session qui e poi un’altra nello studio dove normalmente lavora. Io desideravo che suonasse un assolo, uno di quelli sullo stile dei quali sono cresciuto, ma lui non ha voluto tornare alla ribalta in quel senso, e ha preferito un ruolo di supporto. Com’è stato lavorare con Danny Thompson? Danny ha suonato su un paio di tracce, e infatti una sarà sul prossimo disco. Ha lavorato magnificamente, è un musicista straordinario, e ciò che mi piace di lui è che vuole sempre tutto pronto in anticipo sui tempi, così si organizza… Fa i compiti prima di entrare in studio. Molta gente arriva il giorno stabilito e se ne va subito, perché lui è così sconnesso da un lato, ma dall’altro è tremendamente preciso; gli piace dare un senso ai fraseggi che userà e ai tipi di motivi che inserirà. E’ un personaggio straordinario, e lavorarci insieme è un vero piacere. Riesci a riconoscere la tua influenza nella musica contemporanea? A volte sento delle cose che sembrano avere un collegamento con me, ma mi ricordo di aver visto un’intervista a Patti Smith dove diceva che l’intero movimento punk e tutta la musica moderna derivavano dalla sua musica, ed io ho pensato, beh, è facile pensare una cosa simile, ma aspetta un minuto! (ride). Per ciò che riguarda me, io rispondo ad ogni sorta di influenza, e credo che lo facciano anche la maggior parte delle persone. Quando hai 17, 20, 22 anni ci possono essere degli artisti che tu cerchi di emulare, di scimmiottare, e spesso accade che ti ritrovi a cercare di imitare quelli che ritieni i migliori. Quindi io non scoraggerei nessuno dal copiare un qualche artista, perché credo che questo sia il modo migliore per trovare il tuo mondo, il tuo stile, esplorando gli altri. Andrai in tour con “UP”? Ho intenzione di andare in tour per un po’ con questo disco, di avventurarmi sulla strada di nuovo. Inizialmente ho pianificato di andare in America in novembre/dicembre, e poi farò qualcosa in Europa il prossimo anno. Come la metterai con “Secret World Live”? Mi piacciono ancora molto le cose visive, e Robert Lepage, con il quale ho lavorato nell’ultimo tour, è un vero visionario! Di solito non amo andare molto a teatro, ma il suo lavoro – per chi è cresciuto guardando film, si tratta di vero teatro – è molto visivo, è ciò che io definisco ad alto contenuto idratante. Sembra esserci una specie di mistero, di profondità, di emozione tutto intorno. Una delle cose che amo fare di più è attirare l’interesse della gente e tempestare loro il cervello, e fare un tour visivo mi dà la possibilità di farlo, specialmente con Robert. Quanto è cambiato il modo di realizzare i video? Agli albori dei video non esistevano regole, e quindi in un certo senso si era più liberi, perché non si sapeva veramente cosa fosse necessario per fare un video di successo – se risultava interessante, divertente o semplicemente diverso, tendeva a funzionare. Adesso l’ambiente è più cinico, commerciale, e credo sia più difficile fare qualcosa di artisticamente, o se vuoi visivamente valido, che ottenga abbastanza messe in onda da permetterti di onorare il budget che ci è voluto per crearlo. Cosa pensi del tuo vecchio repertorio, ora che il catalogo è stato recentemente ristampato? Un salutare percorso di crescita! Ti senti ancora legato alle tue canzoni più vecchie? Ora riesco a vederle in modo più distaccato e critico, e credo che le cose buone che avevano spirito ed emozione funzionino ancora per me, mentre altre hanno lasciato un po’ il tempo che hanno trovato. In che modo scrivere per i film è diverso dallo scrivere per un tuo album? C’è una grossa differenza tra scrivere una canzone per un film, dove tutti si intromettono continuamente nel tuo lavoro – spesso cercano di farti realizzare un album intero di colonna sonora, così che possano ricavarci dei soldi, ma questa è un’altra storia – e creare una colonna sonora dove cerchi veramente ti costruire atmosfere e paesaggi sonori che presteranno un buon servizio, qualsiasi sia l’argomento del film. Parlaci di “Darkness”. “Darkness” in origine si intitolava “House In The Woods” e parla della paura. Per me e per altre persone, è la paura che ti impedisce di fare delle cose dalle quali potresti ricavare moltissimo. Quindi mi sono semplicemente guardato dentro. La canzone ha lo spirito di un fermalibri, parla dell’inizio e della fine della vita più che del periodo intermedio, e contiene dei ricordi d’infanzia – sono cresciuto in una fattoria vicino a Horsall Common, dove H.G. Wells nella “Guerra dei Mondi” aveva fatto atterrare i marziani, ma era un posto piuttosto malinconico per giocare. C’era questa signora che viveva da abusiva in un caravan nel bosco, e non si riusciva mai a capire cosa facesse; ogni tanto si sentivano dei rumori provenire di là, e le finestre erano tutte coperte da fogli di giornale, non si riusciva a vedere dentro. Nella nostra immaginazione di bambini di 5/6 anni era una strega spaventosa. Ci mettevamo sempre a correre come razzi quando dovevamo attraversare il sentiero che portava al caravan. Parlaci di “Growing Up”. Mio cognato è morto di cancro, i miei genitori stanno lentamente invecchiando, ho visto un paio di amici morire, e quindi, da una decina di anni a questa parte, la morte è diventata più presente nella mia vita. In un certo senso me ne sto interessando di più, ho letto un po’ di libri sull’argomento e cose di questo tipo, e penso anch’io che le persone spesso si portino dietro lo spirito dei loro 17 anni per tutta la vita; può anche essere un’età diversa, ma credo che la gente non si senta mai vecchia dentro, o almeno molto raramente, mentre fisicamente questo accade. Sembra sempre che, guardandosi indietro, uno non abbia raggiunto il suo scopo, e magari decide di proseguire in un’altra direzione. Parlaci di “Sky Blue”. “Sky Blue” è la canzone più vecchia di tutto l’album, e infatti l’avevamo provata per lo scorso disco, ma avrebbe potuto anche accadere prima. Infatti il riff originale risale a circa 15 anni fa, ed aveva qualcosa che mi piaceva, sentivo che sprigionava buone emozioni. Quando ero un teenager sono stato molto influenzato dal soul e dal blues, sono stati il mio punto di partenza verso tutta l’altra musica. Questa influenza si sente molto nella canzone; l’abbiamo realizzata con meno elementi e abbiamo impoverito un po’ il mix. Ho avuto l’incredibile opportunità di lavorare con i Blind Boys of Alabama, che hanno delle voci straordinarie, e loro stessi sono delle persone straordinarie, ma le loro voci sono così vivide, hanno una qualità del suono diversa dalle voci giovanili. Credo che sia uno dei miei slanci emozionali preferiti dell’intero disco. Parlaci di “No Way Out”. La traccia ritmica di “No Way Out” è stata una delle prime su cui abbiamo iniziato a lavorare, e all’epoca aveva un sapore più latino. Chris Hughes l’ha presa in consegna e ha attuato una sorta di programmazione su di essa usando un affare chiamato “Supercollider”, che tende a frammentare tutto in piccoli pezzetti per poi riassemblarli mantenendo però una certa granulazione, conferendo così al brano uno strano e misterioso effetto percussivo. In tutti questi anni sono stato abbastanza fortunato da lavorare con i migliori batteristi e percussionisti del mondo, e questa è una cosa delle cose che mi fa più piacere. Parlaci di “I Grieve”. Una delle cose che nel tempo mi ha colpito maggiormente è il come la gente usa le canzoni una volta che tu te le lasci dietro. Una volta un comico americano di cui ho sempre ammirato il lavoro è venuto da me dicendomi “Sai, credo che quella tua canzone, Don’t Give Up, mi abbia salvato la vita, perché volevo suicidarmi e continuavo ad ascoltarla”. Molte altre persone utilizzano quella canzone come attrezzo emotivo, e ho cominciato a pensare beh, se usi delle canzoni come attrezzi emotivi, perché non farne una che parli veramente del dolore – ce n sono in verità, ma non molte. Così ho deciso di provare a cimentarmi con un brano che parlasse della sofferenza; comincia con questo velo di malinconia a causa di una perdita, per poi avere l’impressione che nella parte centrale la vita ritorni, e alla fine ti viene ricordato con delicatezza che hai perso qualcosa che amavi. In questo modo è stata costruita come attrezzo emotivo. Parlaci di “Burn You Up, Burn You Down”. In un certo senso questo brano è un intruso nel disco, perché tutte le altre canzoni sono nate dalle sessions; sono rimaste molte altre canzoni, una trentina hanno bisogno di essere ritoccate, e quando è venuto il momento di decidere quali inserire e quali no, questa è tornata in lizza, poiché mi è sempre piaciuta, e dando un’occhiata a tutto il materiale che avevamo, mi sembrava molto più Up degli altri brani, e ho pensato che avrebbe potuto essere un buon contrappunto. Insieme a “Sky Blue” è probabilmente il momento più soul dell’album, e in un certo senso quello su cui abbiamo lavorato di meno, poiché è nato da una specie di jam. Parlaci di “The Drop”. Avevo già presentato la melodia di questo brano per il progetto Dome, ma era stata rifiutata. Siccome mi era sempre piaciuta ho pensato di scriverci sopra delle parole. Ha anch’essa lo spirito del fermalibri, uno stop che ti aspetti. Un lancio col paracadute, senza sapere dove atterrerai! Parlaci di “The Barry Williams Show”. Barry Williams è una riflessione sulla cultura televisiva. Quando ho scelto questo titolo non avevo idea di quanti in realtà siano conosciuti con quel nome: c’è un giocatore di rugby gallese, c’è un attore in America che è stato nel Brady Bunch – ora abbiamo reso disponibili alcune campionature sul sito web, e la gente sta speculando sul perché io abbia voluto far riferimento al Brady Bunch. Si parla anche del testo e sulla possibilità di messe in onda radiofoniche. Non mi ero mai preoccupato di questo prima, poiché penso che il testo non contenga nulla che non si possa trovare in un giornale domenicale o in una rivista per ragazzi, ma è stato divertente scriverlo. Parlaci di “My Head Sounds Like That”. Il mood di questa canzone mi piace molto. In Africa, ad un certo punto, una delle macchine che produce l’eco si è inceppata e ha iniziato a funzionare male, ma mi piaceva quel suono. Il loop che apre il brano proviene infatti dalla Delta Lab Echo Unit malfunzionante. Pensavo ad uno stato depressivo nel quale improvvisamente si apre un lampo di consapevolezza – un po’ come quando stai per vomitare e il tuo olfatto diventa tridimensionale, se capite quello che intendo, diventa una sorta di esperienza sublime -, quindi ho cercato di riprodurlo sotto forma di suoni. In base alla mia esperienza posso dire che la tua coscienza vaga, ma tu trattieni sempre un po’ di consapevolezza. Parlaci di “More Than This”. “More Than This” è arrivata proprio alla fine, ero partito da alcune campionature di chitarra. Stavo bighellonando tra le chitarre, e Daniel Lanois aveva lasciato qui la sua bellissima Telecaster. Non so propriamente suonare la chitarra, ma so come ottenerne dei rumori. Ho quindi manipolato alla tastiera le campionature che avevo ottenuto, e il primo suono che si sente su questo brano deriva proprio da questo processo, mi è sempre piaciuto molto. E’ stato mentre guidavo tra le Alpi italiane – una delle mie deviazioni panoramiche – che ho trovato una vecchia cassetta con su questo materiale. Suonavo con un groove diverso, e a quel punto tutto ha cominciato ad avere un senso per me. Parlaci di “Signal To Noise”. Nusrat Fateh Ali Khan è stato uno dei più straordinari cantanti del nostro tempo, ed è stato molto triste perderlo. Sono fortunato che abbia lavorato su questo brano prima di morire, ed era un pezzo così pieno di energia che avevo proprio voglia di finirlo e renderlo un brano centrale del disco. Lui aveva cantato su una traccia più aspra, ma ho voluto vedere se poteva funzionare con degli archi. In un certo senso è diventata una cosa quasi cinematografica, e credo che utilizzeranno la parte strumentale per “Gangs of New York”, ma sono contento di questo, poiché è sempre stata una canzone dall’ampia visuale. Includere gli archi ha richiesto un po’ di tempo; ho trascorso una settimana a lavorarci sopra con Will Gregory, il quale sta curando il materiale di Goldfrapp con Alison – è un altro personaggio qui di Bath, ha molto talento ed è il più tosto che ho tra le mani per ciò che riguarda gli arrangiamenti. E’ stato molto soddisfacente assistere alla creazione di linee armoniche e melodiche da una accozzaglia di suoni che sono stati poi composti ordinatamente; questo è l’altro brivido che scaturisce per me da questa canzone. Mi pare di aver capito che questo non è l’unico album in programma… Spero proprio che uscirà almeno un altro album da qui a 18 mesi, dipende da quanto tempo starò in tour e da tutti gli altri miei impegni, ma non ci dovrebbe volere molto – tocca ferro! – per terminarne uno. Alcune canzoni sono già complete, altre le dovrò modificare ma il grosso è già stato scritto. I testi sono quelli che di solito richiedono più tempo, ma ne ho già diversi; è bello avere qualcosa in banca da conservare.
(traduzione di Elisa Passera) |
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