Peter Gabriel

OVO

Real World PGCD9

 

Quando, nell’estate del 1998, Peter Gabriel fu avvicinato dai responsabili del progetto Millennium Dome, i suoi fan erano in spasmodica attesa del suo nuovo disco già da un paio d’anni. “Us” risaliva al già lontanissimo 1992, e quando l’utopia di un nuovo album di studio sembrava avvicinarsi, ecco che improvvisamente arrivava, per l’ennesima volta, qualcosa che portava Gabriel a distrarsi da quella che, fino a prova contraria, dovrebbe essere la sua attività principale: quella del musicista.
 

Già, perché se negli anni ’80 Peter Gabriel era riuscito, se pur lentamente, a conservare una certa periodicità nel suo lavoro di musicista, gli anni ’90, che, pure, erano iniziati alla grande (con un nuovo disco di studio, “Us”, che pur non eguagliando il successo interplanetario di “So” aveva guadagnato molta attenzione, e fruttato un tour protrattosi, fra una cosa e l’altra, fino all’estate del 1994), ci stavano mostrando invece un artista sempre più creativo, impegnato in mille cose diverse (due CD-Rom, riflessioni mistiche, campagne sui diritti umani, partecipazioni a convegni e così via), ma apparentemente sempre meno interessato a continuare il suo lavoro di compositore di canzoni.

I fan di Peter Gabriel, oggi, possono tirare un sospiro di sollievo; è vero che la sua partecipazione al progetto Millennium ha ritardato oltre il pensabile la pubblicazione di “Up” (di cui al momento non è ancora ipotizzabile prevedere la data), ma in compenso oggi abbiamo la possibilità di ascoltare un suo nuovo album, “OVO”, coronamento di un lavoro durato un anno e mezzo che, nell’economia dei tempi gabrieliani, equivalgono più o meno a un paio di settimane, ma che nonostante questo presenta notevoli spunti di interesse.

La versione definitiva di “OVO” (della prima vi ha già parlato esaurientemente Stefano Tucciarelli nel numero scorso) è giunta nei negozi di tutto il mondo con una sola settimana di ritardo rispetto alle prime voci, e cioè il 12 giugno anziché il 5. Questa versione definitiva si mostra molto meno succulenta sul piano del packaging; il CD, infatti, è uno solo, seppure confezionato impeccabilmente. Manca il libretto con la storia di Ovo a fumetti (può però essere richiesto alla Real World che lo manderà gratuitamente ai primi 10.000 fan che lo richiederanno), e manca il CD single, poiché il rap “The Story Of OVO” è adesso parte integrante dell’album.

Ci sono i testi (che mancavano nell’altra versione, anche se noi eravamo riusciti lo stesso ad averli e a tradurli in tempi record), ma fra questi continua incomprensibilmente a mancare quello di “Low Light” che, pur essendo in gaelico, dovrà pur significare qualcosa.

A dir poco deludente la copertina, un riciclaggio del bambino già usato su “Eve”; è mai possibile che a un artista multimediale come Peter Gabriel mancasse una nuova immagine adeguata?

Entrando invece nel dettaglio musicale, il CD è tale e quale alla versione Millennium, a eccezione della già citata “The Story Of OVO”, messa in apertura e questa volta con il rap aggiunto di Neneh Cherry, e della omissione del penultimo brano, il breve strumentale “The Tree That Went Up”.

L’album, dunque, inizia proprio con “The Story Of OVO”. Interrogato su questa strana scelta, Gabriel ha spiegato che, data la complessità del concept, era forse il caso di spiegarlo in via preliminare, e per farlo la scelta del rap, che è il linguaggio dei giovani, gli è sembrata la migliore. Sarà. Certo è che le speranze che la bella Neneh Cherry apportasse dei miglioramenti a questo pezzo rispetto alla versione del solo Rasco è naufragata, poiché anche l’artista di colore rappa i suoi versi, alternativamente a Rasco, su una base musicale dura e indolente al tempo stesso, dove nei bridge è possibile ascoltare le voci di Gabriel e di Omi Hall.

Di tutt’altro spessore è la magnifica “Low Light”: un brano pregno di una grande atmosfera creata dapprima da una nota cupa di sintetizzatore (una costante gabrieliana), poi da qualche tocco di piano e dall’ingresso degli archi degli Electra Strings a configurare il giro di accordi su cui appoggia la bellissima voce di Iarla O’ Lionaird. Sul finale si inserisce il flauto Ney di Kudsi Erguner che riporta alle atmosfere di “Passion” e poi il Nord bass di Richard Evans che riprende il tema del piano.

“The Time Of The Turning” ha un’atmosfera sospesa creata dai loop di piano e di chitarra incastonati fra loro, accresciuta dal tappeto di archi. La voce di Richie Havens, che interpreta il padre Theo, è splendida, e altrettanto si può dire per il dolce timbro vocale di Alison Goldfrapp nel ritornello. C’è inoltre un lavoro ottimo e delicato delle percussioni in sottofondo.

La coppia di brani “The Man Who Loved The Earth” e “The Hand That Sold Shadows” parte con un riff ripetitivo su cui si accavallano una serie di suoni strani: spuntano dunque il didgeridoo (strumento australiano), l’Hurdy Gurdy di Nigel Eaton e la furia percussiva della Dhol Foundation guidata dal maestro Johnny Kalsi. Nella seconda fase su un riff diverso, ma ancora ripetitivo, si innalzano dal sottofondo le chitarre di David Rhodes, sporche e caratteristiche.

Dopo una breve reprise di “The Time Of The Turning”, che inizialmente è diversa dalla precedente nella linea melodica, non soltanto per il fatto che a cantare adesso c’è solo Alison Goldfrapp e non più Richie Havens, per “The Weavers Reel” un interludio di mandola e un colpo secco percussivo danno il via a un’atmosfera festosa di chiaro stampo irlandese, con James McNally che si esibisce a strumenti tradizionali come il bodhran, il whistle e l’accordion. Un pezzo trascinante molto sorprendente per Gabriel, che nel mezzo si placa di nuovo per ridare voce a Alison. Verso la conclusione si inseriscono arrangiamenti d’archi (la Electra Strings) ma anche di fiati (la Black Dyke Band) che preludono ad una nuova fase della giga celtica. Dopo una terza fase di archi il brano viene chiuso da una esplosione percussiva della Dhol Fundation.

Ed eccoci a “Father, Son”, l’unico pezzo cantato interamente da Peter. Su due accordi di piano ripetuti, fa l’ingresso la splendida voce di Gabriel insieme al basso di Tony Levin. E’ una melodia molto bella e un po’ malinconica, non particolarmente originale, ma indubbiamente benvenuta per chi ha sofferto l’assenza di Peter dalle scene per così tanto tempo! Ad incrementare il pathos, invece della sezione d’archi, subentrano i brass della Black Dyke Band, che Gabriel ha conosciuto in occasione del brano “That’ll Do” scritto da Randy Newman per la colonna sonora di “Babe”. I fiati suonano in maniera discreta e non invadente, seppure vero la conclusione eseguono delle fasi più ritmiche. Una canzone meno struggente di altre dalla simile struttura, ma solo ad un ascolto superficiale; posso invece confermare che questo brano, se ascoltato intensamente seguendo il testo, può davvero portare alle lacrime come diceva Richard Evans. Specialmente chi, come me, il papà non ce l’ha più.

E non è sicuramente casuale il fatto che, mentre si dissolve l’ultima nota del piano di “Father, Son”, parta il rock industriale durissimo di “The Tower That Ate People”. Un riff duro di Rhodes introduce un’ossessiva batteria programmata da Richard Chappell dal suono elettronico volutamente in maniera fastidiosa. Più avanti subentra anche, per la prima volta nel disco, una sezione ritmica completa, quella classica di Gabriel (Katche-Levin). Peter canta da solo anche questa canzone, ma la sua voce è resa irriconoscibile dai filtri e dalle distorsioni, ad eccezione della fase centrale che acquisisce anche un briciolo di melodia, seppure ipnotica. Come ha già segnalato Stefano nel numero scorso, questa canzone è la versione definitiva (e ben superiore) della “100 Days To Go” pubblicata nell’ultimo E-CD della Real World, che a sua volta includeva anche il breve brano successivo “Revenge”, costituito essenzialmente da una esplosione ritmica affidata agli Adzido Drummers e alla Dhol Foundation che ricorda il finale di “Ryhthm Of The Heat” con un filo di tastiera.

Un altro strumentale è “White Ashes”, dal forte tasso sperimentale: la batteria di Steve Gadd si incastra con la programmazione ritmica di Richard Chappell e come al solito è Gabriel a provvedere ai suoni di sintetizzatore. Lo stesso Peter, insieme a Omi Hall, canta una frase ipnotica e cantilenante in sottofondo.

A seguire, il brano più programmato dalle radio, “Downside-Up”, introdotto da una melodia fischiettata. La voce di Elizabeth Fraser si appoggia sul lavoro delle chitarre acustiche a sei e dodici corde di Richard Evans, mentre il primo ritornello è cantato da Paul Buchanan. Ed è da segnalare che la voce di Paul è incredibilmente vicina a quella di Peter, specialmente nella parte in cui canta “all the strangers look life family…”. I due vocalist cantano in coppia l’orecchiabilissimo ritornello, ma a metà del suo percorso la canzone cambia completamente mood: emerge un riff duro della chitarra a dodici corde elettrificata di Evans e il ritmo subentra il maniera adeguata con la batteria di Katche integrata alla talking drum, ma anche alle Dhol drums e alle percussioni di Babacar Faye e Carol Steel. Questa seconda parte è cantata da tutti i cantanti alternativamente o insieme. Nella conclusione, dopo un inciso orchestrale, ritorna il principale ritornello di Buchanan, questa volta su una ritmica più completa e il brano si chiude con una frase cantata da Fraser. Uno dei brani migliori del disco.

Con la strumentale “The Nest That Sailed The Sky” tornano atmosfere alla “Passion” con l’incastro dei sintetizzatori alle sezioni di archi e di fiati. Su questa base il violino doppio di Shankar ricama da par suo, connotando di grande atmosfera un pezzo che si basa essenzialmente su due accordi.

A seguito dell’estromissione di “The Tree That Went Up” (anche questa molto breve e di atmosfera), si arriva direttamente al brano conclusivo, “Make Tomorrow”. Tornano le chitarre a 12 corde di Evans e le quattro voci; Buchanan, Fraser, Havens e Gabriel si dividono le parti vocali in questa traccia conclusiva che si avvantaggia di nuovo di un ritornello vincente, e che rappresenta anche il brano di studio più lungo mai registrato da Gabriel nella sua carriera (oltre 10 minuti!). Dopo la prima fase più riflessiva subentrano fasi ritmiche più costanti, sia programmate che acustiche quando parte la voce di Havens. Un bel riff di chitarra elettrica di Rhodes, che come sempre fa poche cose ma buone, prelude a un inciso cantato ancora da Buchanan e Fraser. La voce di Gabriel entra quasi alla fine per cantare una strofa che prelude alla conclusione, dove in una lunga coda strumentale (probabilmente un po’ troppo lunga) si sente anche una voce che, sebbene non accreditata nelle note di copertina, mi sembrerebbe di Shankar.

Mario Giammetti